15 Mag Di mare e di terra
Marche. Una regione davvero al plurale e dalle tante anime. Ma con un unico denominatore che unisce le cinque province: gli ottimi prodotti della terra e l’estro dei grandi chef. (…)
A guardare dall’alto le Marche, sorprende il disegno del paesaggio agrario, determinato dall’intervento dell’uomo rurale che l’ha inventato, disegnandolo secondo le proprie necessità: la casa al centro, il campo dei seminativi, la vigna, l’orto, il filare di querce, il fosso a confine. Una frantumazione del mosaico dei poderi che ha negato l’identità al territorio favorendo una cultura autarchica che ha segnato un freno alla crescita omogenea della regione priva di una città egemone quale riferimento e appoggio. Ancona, che aveva storicamente questo ruolo, ha sempre guardato a Oriente, oltremare, trascurando il resto.
Unica Regione ancora al plurale, e non a caso, le Marche hanno trovato, negli ultimi decenni, molti motivi per riscoprirsi.
Fino a pochi anni fa non tutti sapevano collocare territorialmente Urbino o Loreto. Succedeva così anche al Verdicchio, apprezzato e conosciuto, ma al quale era negata una patria: italiano sì, ma di quale regione? Altra afflizione che ha perseguitato le Marche è una lunga teoria di luoghi comuni che hanno falsato i connotati di merito della gente (meglio un morto in casa che un marchigiano alla porta). Ma quel marchigiano era l’onesto gabelliere che pretendeva la tassa per il Papa, marchigiano anche lui. Certo, il comportamento dei marchigiani non era omologabile, né poteva trovare convalide altrove o in altri.
A restringere il campo al settore enogastronomico delle Marche, abbiamo assistito allo stesso fenomeno di penalizzazione: la cucina marchigiana non esisteva. Le era stata negata l’identità, sottraendole ogni certificazione. La cucina era appena una stampella al richiamo turistico, sommesso, per carità, ancora indeciso se manifestarsi o meno, per timore di esibirsi in estenuanti competizioni. Eppure qui sono nati i trattatisti di cucina fin dai tempi antichi. (…)
Tradizione e innovazione. (…)
Suggeritrici preziose sono state, e in molti casi lo sono ancora, le sagge cuoche di casa, che hanno sfornellato per una vita. Meriterebbero un monumento! (…)
Una pagina di storia.
Il Duca Federico di Urbino nella sua città a forma di palazzo volle ampie cucine a servizio dei 100 ospiti illustri. Principe morigerato e soldato valoroso, “sa tenere il mezzo tra il poco e il troppo”. Marchigiano nella misura e non certo per tirchieria. Solo nelle occasioni importanti lasciava lessi, formaggi e uova, per concedere a sé e agli ospiti lombi di cinghiale rosolati a dovere e…fagiano ripieno di carni di beccaccia coperto di tartufo bianco.
Anche nelle campagne, nei paesi e nei conventi la cucina dei giorni feriali era davvero modesta, quaresimale.
Ma nelle ragguardevoli ricorrenze le pie monache cuciniere, per onorare i presuli in visita pastorale, preparavano piatti di grasso e magro, di terra e di mare, di credenza e di cucina, che erano veri attentati alle virtù e ai propositi contro i peccati di gola e seguivano gli indirizzi dei ricettari riservati che venivano tramandati di tonaca in tonaca.
Non scherzavano nemmeno le cuoche di paese che prestavano la loro opera nei matrimoni e nelle feste importanti, come quelle di campagna, cuoche itineranti che seguivano, di contrada in contrada, i grandi lavori stagionali, a conclusione dei quali ammanivano pietanze da far invidia ai cuochi di corte e ai buongustai di nobil casato. Senza strafare, a differenza di quanto aveva fatto Bartolomeo Scappi che al convito di Carlo V presentò un menù con 780 pietanze. Esagerazioni barocche.
Occorre anche dire che c’era la cucina della miseria, molto diffusa, urbana e rurale, con il seguito di malattie a non finire.
Per fortuna questa regione è stata risparmiata dalla fame: c’è stata la povertà, la miseria mai. Sapevano a memoria, i vecchi marchigiani, che l’uomo è quello che mangia. Non l’abbondanza conta ma la qualità di quello che c’è nel piatto. “… che il nutrimento sia la tua unica medicina…”: così Paracelso, 500 anni fa. Così anche oggi.
Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la Rivista “Vie del gusto” – gennaio 2006)
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