20 Nov Il fascino discreto della mezzadria: c’era una volta l’economia circolare
Potrebbe essere l’inizio di una favola, invece è il capitolo primo di una storia di oggi.
L’ambiente della favola e della storia è quello di una quieta collina che guarda il sole dell’alba con la cornice sud di un fiume che, uscito da poco dalla gola appenninica della Rossa, guadagna la piana come tutti i fiumi del mondo.
Il fondale è il paese in posizione egemone sul crinale, coi due campanili che trafiggono le nuvole, simbolo dei due poteri, quello laico del Comune e quello dedicato al santo Patrono, non sempre in armonia nonostante la preziosità dei bronzi che sostengono.
A mezzacosta la casa colonica sta al centro della scena.
Un microcosmo affaccendato in cui gli attori si muovono secondo il saggio copione in scena da secoli. La soluzione abitativa prevede il piano di mezzo destinato a camere e cucina, più la “bigattiera”, il granaio e la soffitta. Al primo piano, o meglio al pianterreno per restare nei termini urbani, la stalla, il deposito degli attrezzi e la cantina. La scala di accesso in genere è di fuori, un po’ balcone, un po’ salotto, ingentilita spesso da una vite rampicante o dal glicine o da una rosa maggiolina dai fiori piccoli e profumati. A specchio l’aia in mattoni, un riquadro sacrificale per i riti del calendario rurale.
L’aia diventa “ara” e l’appropriazione vernacolare restituisce al piccolo spazio il senso più giusto alla destinazione. A seguire le stagioni vi venivano battuti i ceci e le fave, i fagioli e le cicerchie, vi veniva steso il granturco, che lo si arieggiava ripassando i solchi coi piedi nudi secondo la regola che s’era imparata dai vecchi.
In autunno l’aia sapeva di vinaccia: vi si stendeva il materiale di risulta della vinificazione; a novembre il posto era occupato dalle ghiande. La scena ha ancora oggi l’elemento scenografico del pagliaio del fieno e della paglia e, accostato al filare di tamerici, il locale dove viene sistemata la pula, con i pali di sostegno infilzati a terra e alle pareti una fitta cortina di canne legate con un sottile filo di ferro. Vi si alloggiavano gli attrezzi d’uso corrente e, se c’era spazio, il biroccio, un due ruote tuttofare che merita un capitolo a parte. Lo faremo a stretto giro di posta.
Sotto i piccoli gelsi dalle infiorescenze carnose e dolcissime, bianche e nere, gli alloggiamenti dei conigli.
Oltre il recinto di canne, il campo, che dilaga, oltre l’orto odoroso con il pozzo conficcato nella vena, verso i querceti che delimitano la proprietà con i fossi e le siepi di biancospino.
Il campo presenta le suggestioni di composte geometrie nell’alternanza cromatica e nei disegni delle piantagioni. Le maggesi sono percorse da solchi obliqui per la distribuzione delle acque e per il deflusso non devastante delle piogge: sono come le arterie nel corpo dell’uomo.
Là dove c’era il grano, ora c’è il verde dell’erba medica e del trifoglio; più in là rosseggia la lupinella; il lungo rettangolo ocra ha inghiottito i semi del nuovo impianto e così da sempre, in obbedienza alle regole della rotazione secondo il manuale delle stagioni. La vigna ha le cure del giardino. I filari del verdicchio, alti e ariosi, alternano piante da frutto ad altre di sostegno. L’ulivo centenario ha il sacro rispetto di uomini e bestie intenti nella fatica dell’aratura.
La casa è il centro dell’impresa: luogo di aggregazione e di verifica, dove il gioco delle parti non viene mortificato dalla inversione dei ruoli. La gerarchia esprime disciplina e affetto, nel rigore sacrosanto del dovere. Regno dell’uomo è la stalla, con la piccola apertura inferriata sulla porta per consentire il gioco dell’aria e per un controllo sulla salute delle bestie.
La donna amministra il pollaio e raduna il suo patrimonio con il linguaggio consueto dell’ora della beccata. Allora un corri corri generale, dai pagliai a cupola, dalla pula soffice, dalle pozzanghere dell’ultima pioggia, dalla lotta con il lombrico impertinente, uno schiamazzare irriverente. Chi indugia viene spintonato da chi ha maggior foga e tutti per arrivar primi sulla manciata di granaglie sparsa con il gesto ampio della benedizione.
Un tempo la “capoccia” raccoglieva le uova e le portava in paese, quale merce di scambio, per il rifornimento di sale e fiammiferi e, se c’era l’avanzo, un mezzo toscano per l’uomo. Qualche volta sacrificava sulla bilancia del bottegaio un promettente galletto quale contropartita per sardelle, aringhe e baccalà.
Poi, i tempi sono cambiati. Il paese è sceso a valle. Le donne sono andate in fabbrica. I figli studiano e sui campi sono rimasti i vecchi. Al patrimonio di saggezza e cultura mezzadrile fu dato anche lo schiaffo della cattiva memoria.
Per accorgersi, adesso, che avevano ragione loro.
L’economia circolare di cui si parla oggi ha come archetipo la casa colonica di un tempo con le sue pratiche forgiate da un secolare collaudo. Tecniche e sapienza che hanno generato una bellezza da riscoprire. Così che la verde collina invece di spopolarsi possa mantenere l’equilibrio tra uomo e natura com’era sempre successo.
Le antiche intuizioni del mezzadro trovano una traduzione manageriale che è modello a se stessa. Un buon contadino che sa fare il suo mestiere è anche un saggio intenditore. Così, la campagna di quella parte di Marca che si attesta sulla media valle dell’Esino sta conoscendo una seconda conversione dopo quella impressa dai laboriosi benedettini e camaldolesi che disboscarono, impiantarono e allevarono, guadagnandosi la santità con l’onestà e la fatica.
Si perché la favola è finita, ora comincia la storia. Quella di ARCA.
Massimiliano Montesi
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