08 Lug Il cappello di paglia
Montappone e altri centri della media Valtenna non sono a Firenze e dintorni, dove al cappello di paglia hanno dedicato musica e versi, ma nel territorio centro settentrionale della provincia ascolana, dove si continua a confezionare cappelli con la paglia come cento anni fa, anche se in quantità molto ridotte.
Eppure, (fino ai primi anni ’80 ndr) il fatturato dichiarato, senza l’indotto, si aggirava sui 25 miliardi, con l’impiego di 1000 unità su una popolazione d’area di 7000 abitanti.
Una “voce” importante quindi per l’economia della zona. Gli orientamenti della moda snobbano il cappello, è vero, ma perché non stuzzicare gli stilisti? Il cappello è soggetto alla stagionalità dell’uso, vero anche questo, forte è la concorrenza di Cina e Corea, ma possibile che non ci siano voci autorevoli che rilancino questo manufatto utile, quando non indispensabile, fresco, ecologico, piacevole, salutare?
Confido nei giovani. L’ansia del guadagno, l’inventiva, la fantasia, la voglia di autonomia, un pizzico di managerialità innovativa stimoleranno i più coraggiosi ad aprir bottega, specie nelle zone di più avvertita ereditarietà.
Il cappello di paglia ha avuto il suo secolo d’oro nell’800. Nel guardaroba di ogni gagà c’erano almeno tre copricapi in paglia, altrettanti in casa del contadino, dipendeva dall’uso: larghi come ombrelli per i lavori di mietitura, piccoli per le soste sull’aia e in casa, più eleganti per andare in paese.
Da quando? Da sempre. Intrecciare e tessere le paglie è operazione antica quanto il grano.
I tempi della miseria hanno insegnato a non buttar via niente.
Così il “triticum aestivum”, detto anche grano marzuolo, oltre alle spighe fruscianti e polpose, forniva un gambo adatto alla lavorazione.
Andate d’estate a Montappone o a Falerone, per vedere come tratta la paglia quella gente lì.
Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la pubblicazione: “Marche, l’Italia che fa”)
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