06 Ott LA VALORIZZAZIONE DELLE RAZZE AUTOCTONE
Le razze autoctone rappresentano un vero e proprio bacino di biodiversità che incarna storia, cultura e territorio, temi da sempre cari ad Arca che oggi vogliamo approfondire.
C’è da dire innanzitutto che la situazione attuale non è positiva: seppure ci siano molti tentativi di recupero di queste razze (basti pensare ai Presidi Slow Food), gli allevamenti industriali e le nostre abitudini di consumo non rendono facile la vita ai piccoli produttori che decidono di investire nell’allevamento di razze locali. La FAO, ad esempio, stima che su 7745 razze locali il 26% è a rischio estinzione e il 67% non presenta dati sufficienti per avere informazioni adeguate.
Eppure allevare questi animali presenta alcuni vantaggi importantissimi: come ci ricorda Slow Food, infatti, essi “sono capaci di convivere con climi differenti e luoghi impervi a cui si sono adattate negli anni e sono più resistenti a malattie ed epidemie rispetto alle razze commerciali. Inoltre, il fatto che gli animali siano allevati nei loro territori di appartenenza, in allevamenti estensivi, biologici e rispettosi del loro benessere e dell’ecosistema, consente una maggiore qualità dei prodotti e un impatto ambientale minore” rispetto agli allevamenti intensivi.
Nelle Marche, il lavoro di tutela e conservazione delle razze autoctone viene svolto dall’AMAP, che con la sua Banca Dati sulla Biodiversità Agraria custodisce il patrimonio genetico di piante e animali, valorizzando allo stesso tempo i piccoli produttori, chiamati allevatori e agricoltori custodi.
Vediamo quindi qualche esempio di razza autoctona marchigiana.
La gallina di razza Marchigiana e razza Ancona
La razza Marchigiana ha una storia molto antica, addirittura nella letteratura agronomica si trovano tracce risalenti a ben tre secoli fa.
La Marchigiana, progenitrice della razza Ancona, è una razza abbastanza rustica, che sopporta male gli spazi angusti e anzi si adatta benissimo all’aria aperta resistendo anche a malattie e intemperie. È riconosciuta come un’ottima produttrice di uova dal colore bianco leggermente rosato e ha una carne particolarmente sapida e saporita, merito anche dell’attività di pascolo all’aperto. Per questi motivi, si presta all’allevamento biologico e potrebbe fornire alle aziende un valore aggiunto dato dalla lunga storia della razza e dall’alta qualità della carne.
La razza Ancona, invece, si può riconoscere al primo impatto. Il piumaggio infatti è nero con dei puntini bianchi, elemento che le è valso il soprannome di “gallina a pois”. Sembra che questa particolarità sia stata sviluppata con una duplice funzione: oltre a nasconderla dai predatori, infatti, i contadini la ricercavano particolarmente perché era facile nasconderla anche dai controlli del padrone. Infatti, dato che questa gallina ha un carattere molto rustico e vivace, i contadini all’epoca la lasciavano razzolare liberamente in modo che al momento della conta i capi non potevano venire individuati nei campi.
Anche la gallina di Ancona ha una storia molto antica: viene infatti citata in un libro dell’800 in cui si narra che nel 1848 fu esportata, proprio dal porto di Ancona, per arrivare in Inghilterra ed essere attentamente selezionata e migliorata. Per questo oggi, anche se sembra un fatto curioso, si trovano più galline razza Ancona in America e in Australia che nelle Marche da cui è nata. Per fortuna, dagli anni 2000 alcune associazioni hanno provveduto ad attivare progetti di salvaguardia per reinserirla nel suo luogo di origine, e tra queste anche l’azienda Garbini. Quest’ultima nello specifico tentò alla fine degli anni ’80 di avviare un progetto di recupero creando un centro di ricerca polivalente che potesse valorizzare la razza tipica marchigiana, ma anche la cultura contadina in senso lato (comprendendo dunque la produzione di prodotti tipici del luogo come vino, olio e pasta). Da qualche mese il progetto è stato in parte ripreso da Arca che attualmente sta allevando presso un agricoltore locale alcuni esemplari di razza Marchigiana e Ancona per testarne la carne, le uova e i metodi di allevamento.
La pecora fabrianese
La pecora fabrianese, come suggerisce il nome, è una pecora tipica della zona fabrianese, frutto di un incrocio e successivo meticciamento con altre razze.
La sua storia è più recente e risale agli anni ’60, ma ha comunque avuto una rapida diffusione per la sua carne e per la produzione di latte. Attualmente è allevata soprattutto nell’area pedemontana appenninica ed è una delle 17 razze bovine autoctone ad essere iscritta nel libro genealogico dell’Associazione Nazionale della Pastorizia.
Dalle razze autoctone ai salumi naturali
Abbiamo già parlato dei numerosi motivi per cui sarebbe fondamentale il recupero delle razze autoctone, ma non abbiamo ancora citato i benefici alimentari. Infatti, quasi sempre queste razze essendo locali ed allevate da piccoli produttori, sono nutrite con mangimi naturali e possono pascolare liberamente grufolando all’aperto.
Ne consegue quindi che la loro carne sia di ottima qualità e anche i salumi che vengono prodotti sono naturali, privi cioè di sostanze chimiche come i nitriti e i nitrati ma ricche di conservanti naturali come sale, pepe e spezie. A questo proposito un esempio positivo e incoraggiante viene dall’azienda “Salumi Caporale”, un’azienda abruzzese che si è posta come obiettivi la salubrità dei prodotti, il gusto e perché no, anche il bello. Dal loro sito si evince che sicuramente non utilizzare sostanze chimiche nella produzione di salumi non rappresenta la scelta più semplice ed economica. Si tratta infatti di un lavoro attento e preciso, in cui tutto parte da come è stato allevato l’animale, che influisce poi sulla qualità della carne, sulla conservazione, lavorazione ecc. Per maggiori informazioni sulla questione, vi invitiamo a leggere questo articolo dell’azienda “Salumi Caporali” in cui si spiega minuziosamente il processo di produzione dei salumi naturali di loro produzione.
Il futuro delle razze autoctone
All’inizio dell’articolo si è parlato di conservazione delle origini, di tradizioni e ovviamente di storia. Una storia che, per come stanno odiernamente le cose, è destinata a perdersi nel tempo se non si agisce nell’immediato. Cosa si può fare allora?
Dal punto di vista personale, possiamo iniziare a prediligere i piccoli produttori al posto delle grandi firme da supermercato, che seppure presentano alcuni prodotti di qualità, nella maggior parte dei casi non si curano molto del benessere animale e delle razze in estinzione. Come accennato all’inizio dell’articolo, anche i Presidi Slow Food possono dare un valido contributo sotto questo aspetto.
Dal punto di vista istituzionale, invece, si potrebbero finanziare progetti mirati a tutelare le razze autoctone, contribuendo così anche a mantenere la struttura sociale e territoriale di prati e pascoli nelle aree marginali e più interne (vedi ad. Esempio progetti “Biodiversità” e “Convenient” dell’Emilia-Romagna).
In conclusione, possiamo dire che la soluzione per salvare queste razze è la valorizzazione e la promozione dei prodotti trasformati, elementi cruciali per salvaguardare un preziosissimo patrimonio genetico, culturale e territoriale.
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