La Regina ama il Diavolo nella fossa dell’Inferno

Alla scoperta di luoghi dove leggenda e realtà convivono.

I nomi che hanno le cime della catena dei Sibillini invitano ad arrestare il passo; mistero e paura si confondono, come confusa è la storia che dissolve ogni pretesa di veridicità nelle nebbie della leggenda.

I nomi dunque: Forca Viola, Forca di Presta, Fossa dell’Inferno, l’Infernaccio, La Priora, Pizzo della Regina, Pizzo del Diavolo, Passo Cattivo, Grotta del Diavolo, Val dell’Inferno, Valle Scura, Monte di Morte, Lago di Pilato.

In mezzo a tanto orrido il Pizzo Tre Vescovi si trova a disagio, ma sono in tre e dividono per tre non solo il pizzo ma anche la paura.

Il monte più alto della catena, 2478 metri, è il Vettore, forse chiamato così perché sembra che traini tutti gli altri, quasi un locomotore fermo (tettonica a parte ndr) sul precipizio della salaria, la strada che va a Roma.

Tra il Sibilla e il Priora si stringe l’Infernaccio.

Di queste cime hanno parlato, inventando storie fitte di suggestioni, Ariosto, Trissino, l’Aretino, Luigi Pulci, Cecco D’Ascoli, Andrea da Barberino, Cellini, Montaigne, Antoine de La Sale, Folengo, Goethe e certamente molti altri che non sapevano scrivere.

Più vicino a noi Guido Piovene che, nel suo “Viaggio in Italia” del 1957, scriveva che la catena montuosa dei Sibillini era la più leggendaria dell’Italia del Centro.

Nel suo viaggio sui monti della Marca, nel 1420, Antoine de La Sale, con coraggio e grande perizia redasse una carta descrittiva, una mappa, con annotazioni e disegni di punti, ben identificabili attraverso riferimenti certi e non mutabili.

Una delle poche verità tra tanta letteratura fantastica fiorita per secoli. Dieci anni prima di De La Sale un altro ardimentoso, di nome Semplicianus, aveva sudato sette camicie per scalare il monte, il Venusberg, secondo la descrizione di uno scrittore tedesco dell’epoca.

I viaggiatori stranieri che venivano a cercare l’Italia magica, di cui si favoleggiava in tutta Europa, avevano sentito le voci di un trasferimento delle figure della mitologia magica sui monti nel centro dell’Italia. Il fascino di un approccio con l’antologia mitica al femminile muoveva correnti di pensiero che non facevano dormire sonni tranquilli a spiriti avventurosi e sognatori.

Alcina, Civile, Circe, Morgana, Sibilla, Venere, tanto per seguire l’ordine dell’alfabeto, erano i personaggi cercati o forse uno solo con nomi diversi. Con lei bisognava fare i conti per conoscere il passato e il futuro.

Il Pontefice di Roma e la Corte erano in esilio ad Avignone ed il popolo, in assenza del Grande Capo, aveva eretto il vitello d’oro. Un ritorno al magico, alla negromanzia, agli evidenti richiami pagani, anche in contrapposizione al fondamentalismo religioso di gruppi o di piccole congregazioni.

Il luogo appartato e praticamente inaccessibile si adattava meglio alla leggenda delle mille lusinghe, del proibito, dell’inconfessabile inganno, del piacere senza freno.

Il comprensorio è stato teatro di raduni negromantici specie nelle cerimonie di consacrazione del “Libro del Comando”, che tutto concedeva all’uomo che si era donato al demonio.

La leggenda del libro aveva trovato facile attecchimento in epoca medievale, ma anche oggi c’è qualcuno che giura di averlo in casa, nascosto. Anche io ho incontrato un uomo, anni fa, con un cappellaccio nero di taglia extra large e con una volpe imbalsamata intorno al collo. Era Cervidone da Cingoli. Il viaggiatore che veniva dalla Francia trovava anfratti e grotte nelle piaghe carsiche dei monti dove erano facili gli abbagli alla luce delle lanterne, tra i piccoli laghi e cristalli di calcite colpivano anche la fantasia i venti ipogei che piegavano le fiamme delle torce, ora caldi, ora freddi.

Sono venute alla luce iscrizioni (una del 1378) e monete del 1500 ed altri oggetti di non sempre facile identificazione che testimoniano i ripetuti tentativi di ritrovare l’antro della Sibilla, ma frane e terremoti hanno ostruito passaggi e riempito cavità. La Grotta della Sibilla si trova a 2150 mt di quota. A Montefortino i vecchi raccontano che tanti anni fa ancora si vedeva parte del cancello d’ingresso all’antro conficcata nella roccia.

Questo sta a dire quanto sia radicata la leggenda tra le genti appenniniche, specie tra i pastori e i boscaioli che ancora vivono quassù. Si dice che la Sibilla appenninica avesse il dono della profezia, che avesse svelato addirittura la venuta di Cristo. Forse per questo venne qui il Guerin Meschino, forse per accertare l’origine e quindi l’identità anche se lasciò gli inviti della maga per non peccare e andare a chiedere il perdono a Roma sulla tomba di Pietro.

Non andò bene invece a Tannhauser che indugiò oltre l’anno cadendo nel peccato e quindi nella condanna. Anche perché le fate, bellissime, di notte si trasformavano in serpenti. E’ evidente il riferimento alla Sibilla Cumana interrogata da Virgilio per sete di conoscenza.

Altra presenza inquietante è il lago di Pilato; intrigante presenza di un altro personaggio scomodo, quel Ponzio Pilato coinvolto nel processo a Gesù. Per questa ragione venne fatto salire su un carro trainato da bufali inferociti (meglio imbufaliti) e scaraventato, con carro e bufali, nel catino ai piedi della vetta. Sulla parete rocciosa si protendono due spuntoni di roccia. Uno, incombente, è il “Grande Gendarme”. Il valico sovrastante è il Passo Cattivo.

I santi sono tutti a valle.

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la Rivista “Buongusto” – gennaio/febbraio 2004)



Massimiliano Montesi
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